Intervista al gruppo norvegese, una delle seminali realtà post rock europee, da dieci anni in
conflitto con il passato e il futuro della forma canzone.
"Siamo come nani sulle spalle dei giganti", una citazione colta di qualche anno fa con cui Bent
Saether (basso, chitarra ed ideatore di molte canzoni) intendeva sottolineare l’eterno
passaggio di esperienze estetiche che lega l’evoluzione della musica dei Motorpsycho. Travasi
che hanno segnato buona parte del pop degli ultimi cinquant’anni e che sono sempre stati alla
base dell’esperienza sonora del gruppo di Trondheim: un coacervo, dalle scintille hard core e
metalliche di Lobotomizer (1991) fino alla forma-canzone stratificata ed agguerrita
dell’attuale Let Them Eat Cake. Dieci anni di dischi e di scelte sempre interessanti ed
intense: un modo per rinnovare lo spirito del rock’n’roll mescolando radici e suggestioni
futuribili, visceralità e riflessioni, un’arte in cui Saether, Snah (chitarre e tastiere) e
Hakon Gebhardt (batteria e chitarre) sono indiscutibili maestri.
Alla vigilia di una nuova serie di concerti dalle nostre parti (marzo/aprile) abbiamo chiesto a
Bent di illustrarci qualche via di fuga dal grigiore attuale ...
Hai dichiarato più volte che "la (vostra) musica deve sempre cambiare". Al di là della
scelta di comprimere lo sviluppo delle canzoni e di stilizzare la loro struttura, cosa si è
modificato nel tuo approccio con la materia, in tutti questi anni?
Non saprei, davvero. Cerco sempre di prendere le cose con un’attitudine che possa permettermi
di andare oltre, di superare quello che ho già fatto. Col tempo mutano le tue ambizioni, trovi
modi più elaborati per esprimerti ed impari meglio ad usare gli strumenti. Dopo dieci anni nei
Motorpsycho sono molto cambiato, come musicista e come essere umano: l’esigenza di dire cose
diverse in modi diversi è fisiologica. In ogni caso, continuo a comporre con la mia vecchia,
fidata chitarra acustica ...
"The Other Fool" mi pare abbastanza vicina alle atmosfere di Kashmir (Led Zeppelin). Sono
sordo?
Spero di no! Devo dirti che sei il primo a fare un paragone del genere; a me piacciono molto di
più i primi dischi dei LZ.
Ascoltando il nuovo album, mi è parso che non sappiate scegliere tra Beatles e Rolling
Stones, per non parlare poi di certi momenti alla Beach Boys ("Big Surprise"). Il vostro gusto
è sempre più retroattivo: si tratta di una scelta strategica? Arriverete presto a fare del
‘puro’ rock’n’roll, suppongo ...
Beh, facciamo già del rock’n’roll... In realtà non cerchiamo di emulare altre band
consapevolmente, ma ascoltiamo moltissime cose, differenti non poco tra loro, e succede che
escano fuori meno filtrate di quanto vorremmo. Alcune canzoni che non sono finite su Let Them
Eat Cake si avvicinano molto alla purezza di cui parli, una sorta di incontro tra i Creedence
Clearwater Revival e Pussy Galore, e saranno pubblicate presto dalla Man’s Ruin.
L’ultima volta che vi ho visto suonare - tre anni fa, mi sembra - eravate molto influenzati
dallo space-rock e dalla psichedelia dei primi Settanta (Hawkwind). Ora, immagino che abbiate
cambiato qualcosa, almeno nella strumentazione: c’è ancora una tastiera o altri aggeggi per
espandere le vostre sonorità?
La persona che ha curato gli arrangiamenti del disco è un pianista jazz e sarà con noi nel tour
che stiamo organizzano. Colorerà, diciamo così, la nostra musica, ma non sappiamo assolutamente
cosa ne uscirà fuori alla fine. Siamo curiosi almeno quanto te...
Come lavorate alla struttura dei pezzi?
A fondo! Cerchiamo sempre l’arrangiamento giusto, aderente, per qualsiasi canzone che
scriviamo. Crediamo che ogni composizione abbia una sorta di optimum, una sua versione ‘ideale’
e arrangiare/scrivere/produrre significa fare i passi necessari per tirarla fuori. Una sorta di
maieutica espressiva, quindi: arrangiamo tutto un numero infinito di volte, fino alla nausea,
per affinare la nostra "visione".
Hai ascoltato Eureka di Jim O’Rourke? Il termine post rock ha un senso secondo te? Non ho
ascoltato quel disco Post-rock? Forse giovani e pallidi uomini, vestiti da postini, che fanno
il verso alle introspezioni strumentali di Can e affini? La musica è musica, solo chi non ha
orecchie ha bisogno di etichette...
Da noi capita che i gruppi debbano cantare in italiano, per raggiungere un certo riscontro
critico ed economico. Mi pare che in Norvegia non sia la stessa cosa ...
Anche da noi, per vendere bene, bisogna cantare in norvegese, ma in tanti capiscono
l’aspirazione a comunicare con tutto il mondo e non solo con i vicini di casa. Solo vecchi e
burberi folksinger sbraitano contro chi canta in inglese.
La frammentazione dei generi sembra essere il destino di un rock sempre più agonico. C’è
ancora qualcosa che possa ricondurre questi linguaggi ad unità, ammesso che abbia
senso?
Fino a quando saranno i contenuti della musica a contare e non il medium (dischi, CD, Internet)
attraverso cui si diffondono, la gente farà musica nello stile che preferisce. Finché
comunicherà qualcosa di significativo, qualsiasi linguaggio andrà bene: rock, post-rock,techno,
country & western, musica classica, jazz, qualsiasi altro ibrido che verrà fuori. Le persone
reagiscono alla buona musica col cuore, non con il cervello.
La musica, quindi, parla spesso per se' stessa. Nonostante questo, c’è qualche giudizio su
di voi che ti ha colpito in maniera positiva? E qualcun altro che ti ha davvero irritato?
Abbiamo sempre detto che nel momento in cui avremmo potuto essere definiti, etichettati,
avremmo smesso di suonare. Comunque, se qualcuno scrive che le tue cose sono ‘brutte’, ti fa
sempre un po’ male. La cosa peggiore, però, che può capitarmi di leggere su di noi è che siamo
poco interessanti ...
Ha voglia di stilarmi una lista dei dischi che stai ascoltando di più al momento?
Certo: Other Aspect di Eric Dolphy, Mingus Dynasty di Carles Mingus, Oddesey & Oracle degli
Zombies, Tupelo Honey di Van Morrison, il song book di Dusty Springfield, S. F. Sorrow dei
Pretty Things, un box della Rhino dedicato al soul, Beg Scream & Shout, Train A Comin’ di Steve
Earle, un live degli Slint che mi ha dato un amico e tutto il possibile su Charlie Parker.
John Vignola