Interview with Bent
taken from the
Italian e-zine
ROCK ITALY ONLINE (ROCKOL), 2000-04-10.
Italian. Found at the Rockol-site.
Con un pugno di album in bilico fra hard rock e derive psichedeliche, i Motorpsycho si
sono conquistati un seguito internazionale numeroso e fedele. L’album “Let them eat
cake”, il nono della loro discografia segna una parziale svolta stilistica: senza
rinnegare il loro legame con i suoni degli anni 70, i tre norvegesi si cimentano con
arrangiamenti orchestrali e aperture al folk e al pop più marcate rispetto al passato.
Una scelta stilistica che non dovrebbe deludere i fans, visto che il risultato è
comunque di ottimo livello, e il gruppo non sembra avere intenzione di rinunciare alle
caratteristiche che ne hanno decretato la fortuna. In attesa di vederli all’opera in
Italia nel mese di aprile, Bent Sæther, bassista e cantante, ci ha raccontato i motivi
che hanno spinto la band a sperimentare con suoni diversi, e ci ha dato qualche
anticipazione sulle prossime uscite discografiche, confermando che la tradizionale
prolificità dei Motorpsycho (un album in studio all’anno, più singoli, partecipazioni
a compilation e dischi dal vivo) resta intatta.
Utilizzate archi e fiati negli arrangiamenti di “Let them eat cake”, e l’asse del
suono si è spostato dall’hard rock al folk, anche a certo progressive degli anni 70.
Avete fatto una scelta premeditata o si tratta di un cambiamento nato
spontaneamente?
Probabilmente ogni gruppo coltiva l’ambizione di fare un album orchestrale, sul
modello di dischi come “Pet sounds” o “Revolver”, o comunque qualcosa che porti il
suono iniziale della band un passo più avanti. Dopo avere fatto otto album basati
prevalentemente sulle chitarre, avevamo davvero bisogno di provare un approccio
diverso questa volta. Stabilito che il problema di riproporre dal vivo i brani era di
importanza secondaria, abbiamo rotto gli indugi e ci siamo buttati nella nuova
direzione, sia mentre scrivevamo il materiale, sia nel lavoro di produzione. Qualsiasi
artista che sente di padroneggiare abbastanza qualcosa, prima o poi sente il bisogno
di portare la propria arte in un posto diverso, per continuare a dire qualcosa di vero
e di significativo. Non è interessante starsene seduti sugli allori, è un modo di
agire codardo e noioso.
Adesso però, con il tour in partenza, vi trovate di fronte al problema di
trasferire questi suoni sul palco. Come ve la caverete?
Porteremo in tour con noi Baard, che si è occupato degli arrangiamenti sul disco.
Suona le tastiere da Dio, canta bene e può anche suonare il contrabbasso, se ne
sentiamo la necessità. Avremo degli archi “finti”, fatti col mellotron, e cercheremo
di portare le canzoni in direzioni diverse. In ogni caso, non abbiamo mai cercato di
ricreare esattamente gli album quando siamo sul palco. Non vi resta che aspettarci e
vedere...
Avete sempre seguito una traiettoria vostra, non riconducibile a una scena in
particolare. Ci sono gruppi con cui sentite di avere qualche affinità?
In qualche modo sì. I Mercury Rev hanno fatto cose con cui sento di avere qualcosa in
comune, anche l’ultimo album dei Flaming Lips mi è sembrato vicino al nostro spirito.
Comunque, cerchiamo di non prestare troppa attenzione a quello che fanno gli altri: è
fin troppo facile finire con l’emulare quello che ti piace.
Per il primo volume della serie di album live “Roadwork” avete usato il sottotitolo
“Heavy metal iz a poze, hardt rock iz a laifschiteil”. Bella frase, ma cosa
intendevate esattamente?
Non lo so proprio! Era diventato una sorta di motto del tour durante il quale abbiamo
registrato il materiale finito sull’album, quindi era naturale usarlo come titolo.
Fondamentalmente, si tratta di uno scherzo.
“Whip that ghost” mi ricorda molto gli Allman Brothers. Sono fuori strada o è
un’impressione giusta?
No, non sei affatto fuori strada. Si tratta di una specie di tributo, ma anche di un
tentativo di fare qualcosa con un bel groove in 6/8 senza suonare come gli Iron
Maiden. Probabilmente, la canzone sarà diventata lunga almeno il doppio quando
arriveremo a suonare in Italia...
In alcune vecchie interviste, qualcuno di voi aveva parlato della Norvegia e del
fatto che la vostra terra in qualche modo vi ispira musicalmente. Succede ancora?
Non so se sia mai accaduto o se accada adesso... La gente sente nella musica quello
che vuole sentirci, e se quello che facciamo suona “norvegese” alle orecchie di
qualcuno, va bene così. Per quello che mi riguarda, non ci sono influenze del genere,
almeno consciamente.
Oltre agli album, pubblicate molto materiale, fra 7”, compilation e registrazioni dal vivo.
Quali sono le prossime uscite che avete in programma?
I pezzi hard rock che abbiamo registrato l’anno scorso, e sono rimasti fuori
dall’ultimo album, usciranno per la Man’s Ruin nel corso del 2000. In primavera uscirà
un singolo da “Let them eat cake”, e poi è pronto il secondo volume della serie
“Roadwork”. Inoltre, Geb pubblicherà un album da solo durante l’anno. Basta?
Avete preso il vostro nome da un film di Russ Meyer, ma è difficile collegare la
vostra musica con l’immaginario di questo regista. Qual è il punto di contatto?
Non c’è proprio! Però è un grande nome per una psychedelic hard-rockin’ band!