La discografia
di Francesco Imperato e Luca
Fusari
La discografia dei Motorpsycho è una babele. Già le
uscite ufficiali full-lenght danno dei grattacapi perchè tra
cd e vinili vi sono delle differenze di track-list ( con
privilegio agli lp). Poi vi sono edizioni limitate con o senza
poster incluso, singoli ed ep editi singolarmente e
successivamente accoppiati,etc. Di questi ultimi vi segnaliamo
quelli più rappresentativi e più facilmente reperibili (tutta
la discografia dei MP è distribuita in Italia da Self). Per
maggiori dettagli vi consigliamo di consultare il sito non
ufficiale (ma completissimo) della band, motorpsycho.fix.no.
Lobotomizer(Voice Of Wonder,
1991) Grezzissimo esempio di proto-grunge pesante e
motorheadiano prodotto a basso costo. I Motorpsycho si
immergono, forse senza averne una piena coscienza, nel
calderone del sound di Seattle più garage, da bravi epigoni di
Mudhoney e Motorhead. Bent Saether non canta, grida. È senza
tecnica, senza bussola. Memorabili alcuni pezzi ancora in
repertorio come Hogwash e Grinder. L’esordio di
un trio di ‘rebels without a cause’. Voto:3/5 (FI)
Three songs for rut/Eight soothing songs for
rut(VoW, 1992) Raccolti in un unico cd un singolo e un
ep. Il linguaggio e lo stile è pressoché identico e
l’attenuante dell’esordio si sgonfia. Da segnalare il
grunge-punk di Have Fun,e gli oltre nove minuti di
graffianti melodie di Lighthouse Girl.Voto: 2,5/5
(FI)
Demon Box (VoW, 1993) Il primo vero
momento di svolta, la prima sintesi riuscitissima delle molte
influenze dei Motorpsycho: la matrice hard rimane (vedi
episodi come Feedtime o Sheer Profundity), ma
gli spunti di cui ora è ricca sono molteplici: ecco allora
bozzetti acustici (la delicata Tuesday Morning o la
rilettura oscuramente psichedelica di All is
Loneliness), momenti più vicini all’indie-pop (Nothing
to Say, Sunchild, Junior, le due versioni
dell’arciclassico Waiting for the One/The One Who Went
Away), e soprattutto le suite allucinate di Step Inside
Again e delle pietre miliari Demon Box e Plan
#1 (i modelli perfetti delle jam oscuramente psichedeliche
di cui il gruppo è stato maestro, forse il tratto più
caratteristico del suono dei norvegesi). Il suono non è ancora
rifinitissimo – molti pezzi sembrano registrati dal vivo in
studio – ma siamo di fronte alla prima raccolta di classici,
in cui la personalità fortissima e lo stile unico del gruppo
si affermano finalmente senza cedimenti. Voto: 4,5/5
(LF)
Mountain ep–Another Ugly ep (VoW, 1993 –
1994) In due Ep da cinque tracce l’uno, un’ulteriore messa
a fuoco delle direzioni musicali del gruppo. Qualche scoria
metallica rimossa (Flesharrower), tributi diretti
(The House at Pooneil Corner dei Jefferson Airplane,
Watching You dei Kiss) e indiretti (la monumentale
Mountain, un magnifico esercizio di stile che combina
in una sola jam Black Sabbath, Pink Floyd periodo Echoes e
quel qualcosa di inconfondibilmente personale già affiorato in
Demon Box), demo, divertissement, parentesi strumentali, e
soprattutto, ripartite tra i due dischi, tre gemme che dicono
molto sui Motorpsycho che verranno di lì a poco: la ballata
acustica Blueberry Daydream e il power-psych-pop di
Another Ugly Tune e She Used to be a Twin. Voto:
3,5/5 a entrambi. (LF)
Timothy's Monster
(Stickman,1994) Raramente mi capita di sbilanciarmi in
maniera così spudorata per dei dischi relativamente recenti,
ma mi sento di affermare che si tratta ne più ne meno che di
un classico, un doppio cd in cui la qualità media della
scrittura (ormai molto più vicina a forme ‘pop’ rispetto agli
esordi) è a livelli stratosferici, e il suono raggiunge un
compromesso tra cura dei dettagli e attitudine a fedeltà più o
meno bassa – tipica del periodo – che nessuno, in tutto il
decennio, riuscirà più ad eguagliare. Il primo cd riassume
tutto ciò che di meglio il mondo dell’indie rock ha saputo
dire nella prima metà degli anni ’90, e lo rivede alla luce di
una sensibilità unica, che sa elargire tesori pop come
l’iniziale delicatissima Feel o On My Pillow,
Beautiful Sister e Now It’s Time to Skate, i
gioielli chitarristici Trapdoor e Wearing Yr
Smell, le derive psichedeliche di Giftland, Watersound o
della travolgente Kill Some Day. Nel secondo dischetto
è l’attitudine da jam a prevalere, con l’ennesimo classico ad
alto minutaggio The Wheel, l’urticante
Grindstone (unico momento semi-hard di tutto l’album) e
le magnifiche Sungravy e The Golden Core. Ma
avrei bisogno di pagine per tentare di spiegarvi un disco così
sospeso tra tante influenze eppure così magnificamente solido
e coerente nel suo essere multiforme, quando quel che è più
necessario è ascoltarlo. Voto: 5/5 (con lode) (LF)
The Tussler (Stickman, 1996) A poca
distanza dal capolavoro, un’uscita spiazzante, un pugno di
pezzi nuovi e vecchi riproposti per lo più in salsa
country-rock, a conferma della poliedricità degli ascolti del
gruppo. Ritroviamo quindi chicche della discografia precedente
(Hogwash, Waiting for the One, Sunchild) riarrangiate
tra violini, steel guitars e banjo, in un clima sospeso tra la
sincera ammirazione per un certo rock anni ’70 alla Eagles, e
l’autocaricatura ironica e divertita che prende l’attitudine
hard dei Motorpsycho e la lascia travolgere da indiani e
cowboy, con un occhio (rispettoso) alla tradizione roots-rock
americana (nella versione in vinile datata 1996 si trovano
anche le cover di Lazy Days di Gram Parsons e una
notevole Albuquerque, farina del sacco del Neil Young
migliore). Voto: 3/5 (LF)
Blissard (Stickman, 1996) Un altro passo
altrove, un altro tentativo di non ripetersi, che porta ad un
disco in qualche modo diviso in due: la prima metà è
energetica, elettrica e completamente chitarristica, con pezzi
come Sinful, Wind-borne, ‘s Numbness o The
Nerve Tattoo che battono di nuovo territori ‘indie’, ma
con meno personalità di quella esibita nell’album precedente,
recuperando per lo più intrecci chitarristici pop-noise, quasi
una versione aggiornata dei Sonic Youth di Daydream Nation. La
seconda metà torna invece ad essere spezzettata tra ballate in
tono minore (la bellissima Manmower, l’anticlimax di
Fools Gold), mini-suite (True Middle suona come
la seconda parte di Plan#1) e divagazioni strumentali
(Nathan Daniel’s Tune From Hawaii). Il che non basta
però a risollevare la media di un album che pecca forse di
troppa compattezza ed omogeneità sonora Voto: 3,5/5
(LF)
Angels And Demons At Play (Stickman,
1997) Ritorno ad un suono multiforme, ricco di influenze e
puntato in molteplici direzioni, eppure ancora assolutamente
originale nella sua poliedricità: AADAP arricchisce il
repertorio di altri classici pop (Walking on the Water,
Starmelt-Lovelight, Pills, Powder and
Passionplays) e torna a strizzare l’occhio ad atmosfere
hard, saggiamente svuotate di eccessivi fronzoli e lontane –
influenzate come sono dall’attitudine noise – da qualsiasi
cliché anni ’70 (vedi Heart Attack Mack, Timothy’s
Monster). Centro dell’album è la monumentale Un Chien
d’Espace, l’approdo definitivo del gruppo alla forma della
jam psichedelica sospesa tra umori metallici e atmosfere
‘spaziali’ e straniate. In altre discografie sarebbe stato
forse un disco di transizione, qui diventa una bella conferma.
Voto: 4/5 (LF)
Trust Us (Stickman, 1998) Forse la
sintesi migliore del suono dei Motorpsycho ‘maturi’, la messa
a fuoco definitiva del percorso tra hard, psichedelia e pop
continuamente sperimentato e messo alla prova negli anni. Il
suono è per lo più un continuo rimettere in circolo decenni di
rock (dai mellotron alle chitarre fuzz alle batterie metallose
ai bassi distorti), rivitalizzandoli, oltre che con un
buongusto impareggiabile, con la maestria che il gruppo ha
ormai raggiunto in fase di produzione. Trust Us suona
inconfondibilmente radicato nella tradizione, ma anche
totalmente originale, tanto da poter mettere d’accordo sia gli
amanti delle inflessioni più facili della musica dei norvegesi
che quelli più attratti dal lato ‘freak’. L’album è doppio
(questo ci si può permettere quando la propria creatività è
più che solida), e tra accenni a jam strumentali,
accelerazioni elettriche e soste di contemplazione
psichedelica contiene miniere di riff (Psychonaut,
Superstooge), di ‘soliti’ gioielli di pop chitarristico
(Ozone, Hey Jane) e quel paio di classici assoluti (il
popular favourite Vortex Surfer e la straordinaria
Radiance Frequency, paradigmi dell’abilità del gruppo
nel costruire un pezzo sulla lunga distanza) che non guastano
mai. Voto: 5/5 (LF)
Roadwork Vol.1 – HEAVY METAL IZ A POZE, HARDT
ROCK IZ A LEIFSCHTEIL ( Stickman, 1999) Primo album
della serie live Roadwork, compilato con brani tratti dalla
tournée di Trust Us. Del set vengono messe in risalto le
caratteristiche più ‘seventies’, con una scaletta improntata
su due lunghe jam basate su una versione enorme (mezz’ora,
come capita spesso dal vivo) di Un Chien d’Espace e su
un mix di Superstooge e The Wheel, accompagnate
da altri brani ad alto minutaggio (il rockettone stoner di
The Other Other Fool, il break Walking on the
water/Black to Comm – questa a firma MC5 – e la conclusiva
Vortex Surfer). Voto: 3,5/5 (LF)
Let Them Eat Cake (Stickman,
2000) L’ennesimo album che non ti aspetti, una decisa
virata verso la forma del pop più controllato, nei suoni e
negli arrangiamenti. Le chitarre ‘pesanti’ quasi spariscono,
per fare spazio a tastiere d’epoca, archi e sonorità che
sembrano flirtare tanto con certo prog-pop ‘leggero’ (The
Other Fool o lo strumentale Whip that Ghost) quanto
con il classico dei classici pop, i Beach Boys (vedi Big
Surprise e, in generale, tutti gli arrangiamenti vocali
multistrato di Walkin’ With J o Never Let You
Out). Anche le atmosfere psichedeliche si fanno più
rarefatte, come nell’eterea Stained Glass. La maestria
nel comporre i pezzi è la solita, ma nel complesso l’album
manca di picchi ‘fuori dall’ordinario’, forse per un eccesso
di senso della misura. Voto: 3,5/5 (LF)
Roadwork, vol.2 “The MotorSource Massacre”
(Stickman, 2000) Secondo volume della serie. Il sottotitolo è
eloquente. Il concerto ripreso è al Kongsberg Jazzfestival nel
1995. Qui i MP con l'aiuto dell’entità chiamata The Source e
di Deathprod esplorano i meandri del jazz rock spingendo
sull’acceleratore dell’improvvisazione e sfiorando in più
punti il campo del rumorismo tout court. Un disco ancora meno
immediato del primo volume ma ugualmente affascinante. Voto:
3,5 (FI)
Barracuda (Stickman, 2001) Un breve
ritorno al passato o, volendo essere più smaliziati, una serie
di outtake che cozzavano con il nuovo corso MP. Comunque, un
disco da non snobbare assolutamente. Rock schietto e
multiforme, Rolling Stones e MC5 più i 'soliti sospetti'.
Voto: 4,5 (FI)
Phanerothyme (Stickman, 2001) I
Motorpsycho si ambientano meglio al nuovo corso. Sono più
lucidi. Cominciano a svolgere, nel senso letterale del
termine, la matassa di Let Them Eat Cake lasciandosi andare di
più. Aumentano anche i contributi solisti di Snah ( l’ottima
Blindfolded) e di Gebhardt ( il pop screziato di
country di When You’re Dead). Ritornano le chitarre
(In Your Eyes) e le composizioni da culto (Goin’ To
California trasuda di West Coast meets The Doors nella
coda finale); vi è un maggiore equilibrio sul lato acustico
(B.S.’ e Blindfolded). Quest’ultima, firmata da
Snah, mette finalmente a nudo il grande talento del
chitarrista anche come compositore solista. Il tentativo di
avventurarsi verso nuove forme di cantautorato nei MP è
particolarmente riuscito grazie alla sua bravura e al suo
particolare timbro vocale, dimesso e ‘grave’, contrapposto
idealmente a quello sì pulito ma sempre roco di Saether. Voto:
5
(FI)
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