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Motorpsycho
2002/11/13
Live-Trezzo d’Adda, 13 novembre 2002 /Fillmore- Cortemaggiore, 15 novembre 2002/Velvet-Rimini, 19 novembre 2002-11-22

 

 

 

Motorpsycho: Live!

di Beatrice Finauro, Luca Fusari

Il bello dei Motorpsycho dal vivo è che non subiscono più di tanto l’influenza del loro ‘ultimo disco del momento’, e nel corso degli anni non ha mai contato troppo che nella loro uscita più recente le influenze più forti fossero pop, hard rock o psichedeliche. Di solito, data anche la vastità del repertorio a disposizione, gli elementi musicali più disparati riescono a convivere perfettamente all’interno dello stesso show o della stessa serie di concerti. Di tutto questo abbiamo avuto la riprova assistendo a due date della tournée italiana, al Live di Trezzo D’Adda e al Fillmore di Cortemaggiore: i quattro norvegesi si sono sbizzarriti assemblando due scalette quasi totalmente diverse l’una dall’altra, dimostrando di essere in forma smagliante e addirittura molto più brillanti rispetto ad altre apparizioni degli ultimi anni (personalmente, l’ultimo concerto a cui ho assistito a raggiungere simili livelli è stato quello del Bloom di Mezzago nel 1999, durante il tour di Roadwork 1). L’esibizione di Trezzo è stata sicuramente quella più ‘rockeggiante’, e dopo un inizio soft (una notevole versione rallentata di Pills, Powders and Passionplays) è andata decollando verso ritmi più intensi, con qualche concessione a suoni più acustici e soft (molto bella la versione di What If…, sicuramente migliore di quella incisa sull’ultimo album, e ottimo il momento in cui il batterista Gebhardt imbraccia la chitarra acustica per la sua Little Ricky Massenburg) ma in generale rimanendo ancorata al repertorio più elettrico e coinvolgente della band: memorabile l’accoppiata Walking on the Water/Black to Comm, una vera botta di adrenalina rock’n’roll, e soprattutto il picco assoluto del concerto costituito dalla sequenza che ha visto eseguite prima una versione ultra-dilatata e psichedelica di Stained Glass (anche questa superiore alla versione di Let them eat Cake), una Sonic Teenage Guinevere collassata su se stessa fino a divenire 5 minuti (15? 55?) di puro feedback e poi ripresa nel suo incedere sferragliante, e, dulcis in fundo, una Nothing to Say rispolverata dopo parecchio tempo, ottima occasione per compiacersi (giustamente) di fronte al pubblico che canta il ritornello del pezzo in coro. La frase ricorrente di Bent durante il concerto del Fillmore era invece ‘It’s hippie night!’: bastano un palco abbastanza grosso da metterli a proprio agio e un impianto di serie A (oltre che un locale dall’acustica ottima, sopra la media degli scatoloni in cui normalmente si suona in Italia) per trasformare i Motorpsycho in una jam-band di fricchettoni usciti direttamente dal 1974. Ecco quindi che la scaletta privilegia pezzi lunghi e lenti (tra cui anche un paio di inediti tra cui è spiccata, in apertura, Close Your Eyes, 14 minuti di eccellente psichedelia), all’interno dei quali il gruppo si diverte a giocare con gli assoli e le dinamiche. Si vede che i quattro sono assolutamente rilassati e tranquilli, tanto da sfoderare una versione enorme, alla Hawkwind (sarà durata mezz’ora? Probabile..), di Hogwash, un’ottima Watersound e una cover di Ray Charles,I Believe in cui sembrava che sul palco ci fossero gli Allman Brothers. Chicca della serata è stato un breve set acustico, eseguito come bis, in cui ha spiccato la versione chitarra-mandolino-banjo di Waiting for the One, altro pezzo raro. Personalmente li preferisco quando non sono così magniloquenti, ma in serate come questa danno un perfetto esempio di come si può e si deve stare su un palco se ci si vuole meritare l’appellativo di ‘gruppo rock’. Entrambi i concerti hanno dato l’impressione che, se i Motorpsycho sono in forma, anche i momenti più deboli del loro repertorio, eseguiti dal vivo, guadagnano in intensità ed efficacia, il tutto per la gioia dell’ascoltatore che se ne può uscire dal locale soddisfatto dopo almeno due ore (e mezza, a Cortemaggiore) di Vero Concerto Rock, e non di semplice showcase degli ultimi successi. Quindi, caro deejay del Fillmore, la prossima volta, per favore, risparmiaci la musica ad alto volume, che eravamo già contenti così.


Terminata l’esibizione un po’ sacrificata ma molto intensa e molto lo-fi dello Sparklehorse Linkous, accompagnato per l’occasione solo da Minor, i Motorpsycho tornano ad esibirsi sul palco del Velvet di Rimini dopo poco più di un anno e un disco. All’epoca Phanerothyme impazzava con il sound californiano tra Beach Boys e psichedelica acida americana. Le cose non sono cambiate oggi e con il nuovo It’s a love cult la band norvegese sembra proseguire sulla falsariga del rock targato anni ’60-’70.
Inutile dire che Bent e compagni stravolgono ogni sera la scaletta alternando pezzi nuovi a pezzi vecchi e proponendo un menù sempre nuovo. E’ risaputo ormai come sia impossibile vedere due concerti uguali dei Nostri.
Il vero fil rouge dei Motorpsycho sembra però essere ancora una volta qui a Rimini un certo rock magniloquente che talvolta rischia l’ostentazione. Si, insomma, noi li abbiamo preferiti in Blissard, li abbiamo adorati per Timothy’s monster, ci siamo esaltati per Demon Box, li abbiamo apprezzati per Let them eat cake e vederli li sul palco mentre passano da un assolo alla Steve Vai per approdare a lidi del rock californiano suonando tutto ciò che sta in mezzo un po’ ci annoia.
Quella che non manca però è la voglia di suonare, viva, pulsante e si vede, si vede come i Motorpsycho siano li a divertirsi prima di tutto, ad alimentare il fuoco sacro del rock come moderne vestali pagane. Più che sterile divertissement da palati prog vera passione quindi. E non si risparmiano nemmeno sulla durata che supera le due ore e un quarto! Una strepitosa Vortexsurfer ci fa rivalutare tutto il concerto e anche chi si è lamentato delle sessions troppo estese fin qui sale al settimo cielo. Ancora una volta, nonostante tutto, i Motorpsycho dimostrano di essere una delle band più tecnicamente capaci e comunicative a livello di impatto sonoro che ci siano in giro.