Motorpsycho: Live!
di Beatrice Finauro, Luca Fusari
Il bello dei Motorpsycho dal vivo è che non
subiscono più di tanto l’influenza del loro ‘ultimo disco del
momento’, e nel corso degli anni non ha mai contato troppo che
nella loro uscita più recente le influenze più forti fossero
pop, hard rock o psichedeliche. Di solito, data anche la
vastità del repertorio a disposizione, gli elementi musicali
più disparati riescono a convivere perfettamente all’interno
dello stesso show o della stessa serie di concerti. Di tutto
questo abbiamo avuto la riprova assistendo a due date della
tournée italiana, al Live di Trezzo D’Adda e al Fillmore di
Cortemaggiore: i quattro norvegesi si sono sbizzarriti
assemblando due scalette quasi totalmente diverse l’una
dall’altra, dimostrando di essere in forma smagliante e
addirittura molto più brillanti rispetto ad altre apparizioni
degli ultimi anni (personalmente, l’ultimo concerto a cui ho
assistito a raggiungere simili livelli è stato quello del
Bloom di Mezzago nel 1999, durante il tour di Roadwork
1). L’esibizione di Trezzo è stata sicuramente quella più
‘rockeggiante’, e dopo un inizio soft (una notevole versione
rallentata di Pills, Powders and Passionplays) è andata
decollando verso ritmi più intensi, con qualche concessione a
suoni più acustici e soft (molto bella la versione di What
If…, sicuramente migliore di quella incisa sull’ultimo
album, e ottimo il momento in cui il batterista Gebhardt
imbraccia la chitarra acustica per la sua Little Ricky
Massenburg) ma in generale rimanendo ancorata al
repertorio più elettrico e coinvolgente della band: memorabile
l’accoppiata Walking on the Water/Black to Comm, una
vera botta di adrenalina rock’n’roll, e soprattutto il picco
assoluto del concerto costituito dalla sequenza che ha visto
eseguite prima una versione ultra-dilatata e psichedelica di
Stained Glass (anche questa superiore alla versione di
Let them eat Cake), una Sonic Teenage Guinevere
collassata su se stessa fino a divenire 5 minuti (15? 55?) di
puro feedback e poi ripresa nel suo incedere sferragliante, e,
dulcis in fundo, una Nothing to Say rispolverata dopo
parecchio tempo, ottima occasione per compiacersi
(giustamente) di fronte al pubblico che canta il ritornello
del pezzo in coro. La frase ricorrente di Bent durante il
concerto del Fillmore era invece ‘It’s hippie night!’: bastano
un palco abbastanza grosso da metterli a proprio agio e un
impianto di serie A (oltre che un locale dall’acustica ottima,
sopra la media degli scatoloni in cui normalmente si suona in
Italia) per trasformare i Motorpsycho in una jam-band di
fricchettoni usciti direttamente dal 1974. Ecco quindi che la
scaletta privilegia pezzi lunghi e lenti (tra cui anche un
paio di inediti tra cui è spiccata, in apertura, Close Your
Eyes, 14 minuti di eccellente psichedelia), all’interno
dei quali il gruppo si diverte a giocare con gli assoli e le
dinamiche. Si vede che i quattro sono assolutamente rilassati e tranquilli,
tanto da sfoderare una versione enorme, alla Hawkwind (sarà
durata mezz’ora? Probabile..), di Hogwash, un’ottima
Watersound e una cover di Ray Charles,I Believe
in cui sembrava che sul palco ci fossero gli Allman Brothers.
Chicca della serata è stato un breve set acustico, eseguito
come bis, in cui ha spiccato la versione
chitarra-mandolino-banjo di Waiting for the One, altro
pezzo raro. Personalmente li preferisco quando non sono così
magniloquenti, ma in serate come questa danno un perfetto
esempio di come si può e si deve stare su un palco se ci si
vuole meritare l’appellativo di ‘gruppo rock’. Entrambi i
concerti hanno dato l’impressione che, se i Motorpsycho sono
in forma, anche i momenti più deboli del loro repertorio,
eseguiti dal vivo, guadagnano in intensità ed efficacia, il
tutto per la gioia dell’ascoltatore che se ne può uscire dal
locale soddisfatto dopo almeno due ore (e mezza, a
Cortemaggiore) di Vero Concerto Rock, e non di semplice
showcase degli ultimi successi. Quindi, caro deejay del
Fillmore, la prossima volta, per favore, risparmiaci la musica
ad alto volume, che eravamo già contenti così.
Terminata l’esibizione un po’ sacrificata ma molto
intensa e molto lo-fi dello Sparklehorse
Linkous, accompagnato per l’occasione solo da Minor, i
Motorpsycho tornano ad esibirsi sul palco del Velvet di Rimini
dopo poco più di un anno e un disco. All’epoca
Phanerothyme impazzava con il sound californiano tra
Beach Boys e psichedelica acida americana. Le cose non sono
cambiate oggi e con il nuovo It’s a love cult la band
norvegese sembra proseguire sulla falsariga del rock targato
anni ’60-’70. Inutile dire che Bent e compagni stravolgono
ogni sera la scaletta alternando pezzi nuovi a pezzi vecchi e
proponendo un menù sempre nuovo. E’ risaputo ormai come sia
impossibile vedere due concerti uguali dei Nostri. Il vero
fil rouge dei Motorpsycho sembra però essere ancora una
volta qui a Rimini un certo rock magniloquente che talvolta
rischia l’ostentazione. Si, insomma, noi li abbiamo preferiti
in Blissard, li abbiamo adorati per Timothy’s
monster, ci siamo esaltati per Demon Box, li
abbiamo apprezzati per Let them eat cake e vederli li
sul palco mentre passano da un assolo alla Steve Vai per
approdare a lidi del rock californiano suonando tutto ciò che
sta in mezzo un po’ ci annoia. Quella che non manca però è
la voglia di suonare, viva, pulsante e si vede, si vede come i
Motorpsycho siano li a divertirsi prima di tutto, ad
alimentare il fuoco sacro del rock come moderne vestali
pagane. Più che sterile divertissement da palati prog
vera passione quindi. E non si risparmiano nemmeno sulla
durata che supera le due ore e un quarto! Una strepitosa
Vortexsurfer ci fa rivalutare tutto il concerto e anche
chi si è lamentato delle sessions troppo estese fin qui sale
al settimo cielo. Ancora una volta, nonostante tutto, i
Motorpsycho dimostrano di essere una delle band più
tecnicamente capaci e comunicative a livello di impatto sonoro
che ci siano in giro.
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